lunedì 10 ottobre 2011

Noi e l'altro da noi. Prospettive per un confronto autentico col 'diverso'


A fronte degli incontri cui si è partecipato, e coerentemente con l’argomento preso in esame in sede di laboratorio – ossia un approccio teorico, pratico e di carattere esperienziale ai temi della nonviolenza e dei diritti dell’uomo -, agli studenti viene richiesto di elaborare una proposta di risoluzione nonviolenta rispetto ad una situazione conflittuale. La consegna, a mio avviso, si presenta alquanto ardua, dovendosi, in molti casi, azzardare un parere solo congetturale e non comprovato circa una situazione non direttamente vissuta. Non avendo maturato personalmente alcuna rilevante esperienza in questo senso, proverò a scrivere qualcosa di simile, ma che non faccia preciso riferimento ad un contesto conflittuale propriamente attraversato. Dunque, si tratterà piuttosto di porre attenzione su una realtà potenzialmente conflittuale, per di più molto spesso taciuta (se non totalmente e volutamente ignorata), con l’intento di scuotere dall’acquietamento nell’ovvio1 in cui spesso ci si ritrova, e di ‘costringere’ a pensare e a farsi carico di un problema, piuttosto che infischiarsene, dicendolo troppo lontano da sé.
Ho ben presente il rischio insito in un simile tentativo, rischio consistente nello scadere nella vuota retorica; è altresì vero che, essendo doveroso mettere a frutto il proprio pensiero critico, non posso esimermi dal porre in atto tale compito.
Chiedo venia per una premessa così lunga – che ho però ritenuto doverosa, al fine di giustificare la mia scelta circa l’argomentazione, la quale tenderà a illustrare non tanto una proposta di risoluzione creativa e nonviolenta di un conflitto, quanto piuttosto una proposta di riflessione, a partire dal mostrare il carattere pervasivo della violenza in quanto tale. Tale premessa prelude inoltre a una critica dei pregiudizi che surrettiziamente vengono veicolati, e pertanto lasciati passare senza la minima attenzione. Procederò, dunque, partendo da una breve sequenza del film d’animazione Persepolis2, che mi è risultata particolarmente pregnante per una sfumatura di senso che propone quasi (se non del tutto) velatamente.
La sequenza in questione - la descriverò brevemente - riguarda un fatto singolare, che emerge durante il confronto tra la protagonista del film (una giovane donna iraniana) e la realtà del divorzio – realtà sulla quale ella medita, vagliandola in termini di possibilità di risoluzione dei propri problemi coniugali. L’amica con la quale la donna condivide questa riflessione la mette in guardia circa l’atteggiamento degli uomini nei confronti di una donna divorziata, descrivendole la vicenda vissuta dalla propria zia. Quest’ultima, infatti, dopo avere ottenuto il divorzio dal marito, si era vista costretta a subire le avances di svariati uomini3; precisamente, la sfilza di provocazioni subite parte dalle proposte di vari commercianti della zona di residenza della donna (dal panettiere al pescivendolo) fino ad arrivare ai commenti avanzati da un mendicante. Proprio qui la mia attenzione è stata fortemente richiamata. Infatti, la reazione della donna alle varie proposte è stata sostanzialmente diversa: mentre nel caso dei commercianti ella si limita ad andarsene via o a voltare le spalle indispettita, nel caso del medicante decide di sferrare un colpo all’uomo aiutandosi con la propria borsa. Ora, ciò può apparire un fatto insulso o nient’affatto rilevante, ma personalmente ritengo che sia un messaggio quanto mai negativo e riprovevole. Tanto più che, come già anticipavo, veicola un contenuto forte e fortemente carico di ingiustizia in maniera surrettizia, facendo sì che tale contenuto, in quanto inserito in un contesto più ampio, non desti la minima attenzione critica. Ferma restando la mia disapprovazione nei confronti della concezione sessista, retrograda e inaccettabile circa le donne divorziate propria della società descritta dalla regista, mi meraviglia, infatti, la facilità con cui la donna si scaglia contro il barbone, di contro alla grossa difficoltà che incontra nel reagire anche in maniera minima ai commenti degli altri uomini4. Ciò mostra non solo un atteggiamento profondamente diverso nei confronti di chi risulti “integrato” nella società rispetto a quello adottato nei confronti di chi non lo è, ma anche un comportamento completamente differente. Insomma, a conti fatti, sebbene tutti i personaggi maschili menzionati siano alquanto sgradevoli nel loro approccio alla donna, quest’ultima riesce a reagire (vigliaccamente, a mio avviso) soltanto dinanzi al più derelitto! Lungi dal volere criticare arbitrariamente usi e costumi di un Paese ‘altro’, il mio scopo è quello di rilevare come questo fatto rispecchi un atteggiamento comune e diffuso anche nella nostra società, nei confronti dei poveri che vivono per strada. E non c’è da stupirsi se quello che dapprima costituisce solo un comune sentire diventi poi un modo di fare che non desta dissenso. Non è raro, infatti, apprendere dai quotidiani o dai notiziari di casi di violenza totalmente gratuita nei confronti di senzatetto, a opera di gente cosiddetta dabbene. Ove il movente, per altro, è spesso la noia (se non la ‘solita’ prepotenza).
Il mio intento non è certamente quello di stigmatizzare un lavoro cinematografico, il cui senso è chiaramente da ricercare in altro piuttosto che in questo breve episodio; tuttavia, mi sento interpellata in prima persona a prendere la parola rispetto ad un episodio che ritengo grave, e soprattutto pericoloso se lasciato passare senza riflessione di sorta. Il mio breve elaborato vuole essere un incentivo rispetto a una presa di coscienza (e di posizione) circa un fatto così importante5. Ora, una critica è produttiva e utile allorquando si mostra capace di far seguire, alla pars destruens, una proposta concreta ed efficace, e la mia riflessione non vuole affatto esaurirsi unicamente in una critica infruttuosa. Allora, in ciò consiste la mia proposta: l’emarginazione dei senzatetto è un fatto noto, e la violenza su di essi ne è una conseguenza; a mio avviso, non vi sono proposte o tentativi di soluzione migliori della conoscenza personale, diretta o indiretta che sia, di una tale realtà. Non mi riferisco solo alla presa in considerazione della problematica in questione, ma anche - e soprattutto - delle persone direttamente coinvolte. L’atteggiamento adeguato ad un confronto con i senzatetto non è quello della pietà; questo, infatti, oltre a essere solo di poco migliore rispetto all’estraneità e all’indifferenza, genera un modello di relazione assolutamente verticale, in cui un individuo che assume una posizione di superiorità si pone gerarchicamente nei riguardi di un altro che si trova – rispetto a lui - più in basso. Ora, è chiaro che non può mai darsi una totale parità tra un individuo integrato nella società e uno che ne vive ai margini: non è certo possibile avere chiara cognizione delle reali condizioni di vita (e di disagio) proprie di un clochards. Purtuttavia, ci si può sempre cimentare in un tentativo ‘creativo’ di approccio: una modalità relazionale di tipo empatico, aperto al confronto6, capace di lavorare sui propri preconcetti (sempre utili per dare inizio ad un processo di comprensione, ma da mettere in gioco sempre di nuovo), al fine di modificarne le derive più estreme, nell’ottica di un avvicinamento simpatetico7 al ‘diverso’, all’altro da noi8. Sono proprio l’ignoranza, l’assenza di un confronto vero e proprio che permetta di misurarsi con chi è apparentemente tanto diverso e lontano da noi, a non consentire l’autenticità dei rapporti e delle prese di posizione9. La realtà dei senzatetto, quando non è ignorata o passata sotto silenzio, è sempre oggetto di critica in senso negativo. Si tende a biasimare una ‘scelta’ del genere – per quanto non sempre si possa parlare di deliberazione autonoma: nella maggior parte dei casi, quella di vivere per strada non è una decisione presa in maniera libera e volontaria; piuttosto, si tratta di scelte obbligate (ove l’eco dell’ossimoro è affatto palese). Non solo, dunque, chi vive in condizioni disagiate diviene bersaglio di giudizi negativi e di riprovazione; non solo costui è costretto alla solitudine, all’emarginazione e al degrado psicofisico, ma è anche oggetto di violenza (fisica e psichica, giustappunto). Il mio obiettivo era proprio questo: segnalare la presenza di un problema, prendendo spunto da una proiezione cinematografica ricca di spunti di riflessione, sia in termini negativi (come nel caso dello stereotipo riguardante i mendicanti finora analizzato), sia in termini positivi. Infatti, per quanto io abbia stabilito come punto di partenza proprio una parte di questo film, il mio intento – come già accennavo, e mi accingo ora a ribadire - non è affatto quello di biasimare l’intero film: tutt’altro. Se ci si avvale dell’etimologia del termine “problema”, infatti, si è messi di fronte alla consapevolezza della possibilità – mai totalmente negataci – di risolvere il problema stesso a partire da esso10. Se non avessi avuto questa sollecitazione dalla sequenza filmica in questione, non mi sarebbe venuto in mente di sollevare la questione (almeno, non in questa sede). Invece, proprio tale episodio mi ha dato modo di porre in luce un aspetto rilevante della società. E prendere coscienza di una cosa, per quanto problematica essa possa essere, è comunque un buon inizio per tentare di superarla in un senso positivo e produttivo.


1 Tale modo di procedere trae spunto dalla fruttuosa proposta del Prof. A. Cozzo, il quale, proprio nell’ambito degli incontri previsti in sede di laboratorio, ha aperto provocatoriamente il proprio intervento dichiarandosi contrario ai diritti dell’uomo, e in particolare all’espressione “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”. La giustificazione addotta riguardava sostanzialmente due punti di rilevanza pregnante, sui quali non ci si sarebbe affatto soffermati se non vi fosse stata l’azione provocatoria, sovversiva (ma in senso profondamente positivo) del docente. Anzitutto, egli menzionava la presenza di più di una Carta dei Diritti – il che inficia senz’altro il carattere ‘universale’ di tal sorta di documenti (o quantomeno la loro pretesa di validità universale). Ciò mostra, inoltre, le derive coercitive di un’universalità pressoché (infondatamente) imposta. In secondo luogo, criticava l’assenza, in seno alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, di un qualunque riferimento ai doveri dell’uomo – riferimento peraltro presente nella Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli del 1981. Menzionare unicamente i diritti potrebbe, in effetti, comportare lo scadere in un buonismo ipocrita, o in un assistenzialismo paternalistico e gerarchizzante rispetto a tutelanti e tutelati, se non in un atteggiamento certamente politically correct, ma gravemente deresponsabilizzante. Se ho optato per un lavoro ‘decostruttivo’, dunque, ciò è in parte dovuto alla lezione tratta dall’intervento del Prof. Cozzo.
2 La proiezione di tale film, realizzato nel 2007 dalla regista iraniana Marjane Satrapi, era prevista dal programma di svolgimento degli incontri inerenti al laboratorio.
3 Poiché una donna divorziata è già ‘stata di’ un uomo, ella non può aspirare ad una vita ‘normale’ o ad un ritorno alla vita ‘prematrimoniale’ dopo avere divorziato: nessun altro uomo vorrebbe sposarla, proprio perché lo è già stata con qualcun altro, mentre vari uomini si sentono in diritto di farle delle avances, considerandola necessariamente disponibile perché consapevole del proprio status.
4 Naturalmente, qui non si tratta di invocare una sorta di ‘parità di trattamento’ nel senso dell’opportunità di una reazione egualmente violenta ed aggressiva nei confronti di tutti; piuttosto, si tratta di riflettere sulla mancata ‘parità di trattamento’. Pare infatti opportuno chiedersi perché il modo di reagire della donna non sia il medesimo per ciascun singolo caso, e soprattutto perché la reazione cambi esclusivamente ed espressamente in un caso ben preciso – quello di un senzatetto. Ciò che fa problema è l’atteggiamento discriminatorio. A fini chiarificatori, riporterò un esempio, considerato anche che questo episodio di discriminazione ricorda la testimonianza che una ragazza nordafricana condivise con noi frequentanti il laboratorio durante uno degli incontri. La sua esperienza riguardava la realtà degli ‘immigrati’, degli ‘stranieri’, ai quali non è affatto riservato lo stesso trattamento che si usa riservare ai cittadini ‘regolari’. La testimonianza, infatti, mostrava come, mentre un ‘normale’ cittadino non venga sottoposto a controlli da parte delle forze dell’ordine, a meno che questo non sia strettamente necessario, un ‘immigrato’ possa essere fermato per un controllo dei documenti in qualunque circostanza, perfino durante una semplice passeggiata, per il solo fatto di essere ‘straniero’. Per tale ragione, il cittadino ‘regolare’ può anche dimenticare di portare con sé il proprio documento di riconoscimento, non rischiando controlli improvvisi; diversamente, l’‘immigrato’ non può permettersi una tale svista (per quanto abbia il pieno diritto di trovarsi nel luogo in cui si trova), pena le ben note complicazioni di tipo burocratico sugli accertamenti di regolarità di soggiorno. Anche questo episodio, dunque, a ben guardare, offre svariati spunti di riflessione, e per questo motivo mi è parso opportuno – nonché pertinente – riportarlo in questa sede.
5 Uno dei punti cardine della teoria-pratica della nonviolenza è la critica della relazione vittima-carnefice e del giustificazionismo che può seguirne. Infatti, così come il carnefice è tale solo e soltanto in virtù della legittimazione che la vittima stessa, comportandosi appunto da vittima, gli concede, allo stesso modo il disinteresse e la superficialità (quali possono essere la mancata presa di posizione, l’assenza di proteste, la mancata applicazione di sanzioni) nei confronti di simili problematiche ne legittima il sussistere ed il perpetuarsi.
6 Una modalità relazionale di questo tipo consente di instaurare un rapporto simmetrico piuttosto che gerarchico, sebbene non si possa dare un rapporto paritario per il motivo suddetto: risulta impossibile capire realmente come viva un senzatetto, data la complessità e la difficoltà di condurre una vita di stenti e di emarginazione.
7 Il termine “simpatetico” deriva dal verbo greco á (ove è chiara la presenza del riferimento a á, -), che significa sia “subisco, sperimento nello stesso modo”, sia “soffro insieme” (il cum patior latino). Proprio il “soffrire insieme” nel senso di un cercare di comprendere lo stato dell’altro, senza la pretesa di capirlo in toto (il che è impossibile, a meno che non ci si trovi a condividere realmente le sue condizioni di vita), è un valido tentativo di apertura vera all’altro.
8 Misurarsi con una realtà sconosciuta o poco nota e mettere a disposizione anche di altri il frutto della propria esperienza, diffondendo in tal modo l’informazione guadagnata, costituisce una buona prospettiva di risoluzione per questa sfera altamente problematica del nostro contesto sociale. Sebbene un tale approccio non possa affatto sanare la piaga dei senzatetto (in quanto inadatto ad offrire a tutti i clochards condizioni di vita effettivamente migliori: una stanza, un impiego, cibo e indumenti o quant’altro), esso può però rendere migliori le condizioni relazionali di questa gente, restituendole quella dignità che spesso – e senza alcun titolo per farlo – le viene negata.
9 Può risultare proficuo, in questo contesto, leggere le parole con cui, nel 1927, Martin Heidegger, eminente filosofo del secolo scorso, prende in esame l’uomo (l’Esserci) dal punto di vista della sua interpretazione: «l’Esserci [Dasein], fin dall’antichità, da quando prese in esame se stesso, si interpretò come Cura» (M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it. a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2008, p. 224). L’Autore, insomma, pone a tema l’uomo nei termini di un prendersi cura e di un aver cura che attestano la possibilità - inscritta nell’essenza stessa dell’uomo - di una relazione autentica con sé, con gli altri e con le cose intese come strumenti e non come meri oggetti (cfr. Ivi, infra).
10 Anche in questo caso, il riferimento all’etimo si rende infatti imprescindibile e illuminante. Il termine “problema”, in greco ó, significa, oltre che “questione”, “quesito”, “problema”, anche “sporgenza”, “riparo”, “difesa”, “appiglio”. Avvalendoci dei significati che la lingua greca ci fornisce possiamo dunque vedere come un problema non sia unicamente una situazione sfavorevole, bensì anche quello stesso che offre la possibilità - l’appiglio, appunto - per la propria stessa risoluzione. 



Ricerca a cura di Giuseppa Aglieri, H.R.Y.O. – Human Rights Youth Organization

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