A
fronte degli incontri cui si è partecipato, e coerentemente con
l’argomento preso in esame in sede di laboratorio – ossia un
approccio teorico, pratico e di carattere esperienziale ai temi della
nonviolenza e dei diritti dell’uomo -, agli studenti viene
richiesto di elaborare una proposta di risoluzione nonviolenta
rispetto ad una situazione conflittuale. La consegna, a mio avviso,
si presenta alquanto ardua, dovendosi, in molti casi, azzardare un
parere solo congetturale e non comprovato circa una situazione non
direttamente vissuta. Non avendo maturato personalmente alcuna
rilevante esperienza in questo senso, proverò a scrivere qualcosa di
simile, ma che non faccia preciso riferimento ad un contesto
conflittuale propriamente attraversato. Dunque, si tratterà
piuttosto di porre attenzione su una realtà potenzialmente
conflittuale, per di più molto spesso taciuta (se non totalmente e
volutamente ignorata), con l’intento di scuotere dall’acquietamento
nell’ovvio1
in cui spesso ci si ritrova, e di ‘costringere’ a pensare e a
farsi carico di un problema, piuttosto che infischiarsene, dicendolo
troppo lontano da sé.
Ho
ben presente il rischio insito in un simile tentativo, rischio
consistente nello scadere nella vuota retorica; è altresì vero che,
essendo doveroso mettere a frutto il proprio pensiero critico, non
posso esimermi dal porre in atto tale compito.
Chiedo
venia per una premessa così lunga – che ho però ritenuto
doverosa, al fine di giustificare la mia scelta circa
l’argomentazione, la quale tenderà a illustrare non tanto una
proposta di risoluzione creativa e nonviolenta di un conflitto,
quanto piuttosto una proposta di riflessione, a partire dal mostrare
il carattere pervasivo della violenza in quanto tale. Tale premessa
prelude inoltre a una critica dei pregiudizi che surrettiziamente
vengono veicolati, e pertanto lasciati passare senza la minima
attenzione. Procederò, dunque, partendo da una breve sequenza del
film d’animazione Persepolis2,
che mi è risultata particolarmente pregnante per una sfumatura di
senso che propone quasi (se non del tutto) velatamente.
La
sequenza in questione - la descriverò brevemente - riguarda un fatto
singolare, che emerge durante il confronto tra la protagonista del
film (una giovane donna iraniana) e la realtà del divorzio –
realtà sulla quale ella medita, vagliandola in termini di
possibilità di risoluzione dei propri problemi coniugali. L’amica
con la quale la donna condivide questa riflessione la mette in
guardia circa l’atteggiamento degli uomini nei confronti di una
donna divorziata, descrivendole la vicenda vissuta dalla propria zia.
Quest’ultima, infatti, dopo avere ottenuto il divorzio dal marito,
si era vista costretta a subire le avances
di svariati uomini3;
precisamente, la sfilza di provocazioni subite parte dalle proposte
di vari commercianti della zona di residenza della donna (dal
panettiere al pescivendolo) fino ad arrivare ai commenti avanzati da
un mendicante. Proprio qui la mia attenzione è stata fortemente
richiamata. Infatti, la reazione della donna alle varie proposte è
stata sostanzialmente diversa: mentre nel caso dei commercianti ella
si limita ad andarsene via o a voltare le spalle indispettita, nel
caso del medicante decide di sferrare un colpo all’uomo aiutandosi
con la propria borsa. Ora, ciò può apparire un fatto insulso o
nient’affatto rilevante, ma personalmente ritengo che sia un
messaggio quanto mai negativo e riprovevole. Tanto più che, come già
anticipavo, veicola un contenuto forte e fortemente carico di
ingiustizia in maniera surrettizia, facendo sì che tale contenuto,
in quanto inserito in un contesto più ampio, non desti la minima
attenzione critica. Ferma restando la mia disapprovazione nei
confronti della concezione sessista, retrograda e inaccettabile circa
le donne divorziate propria della società descritta dalla regista,
mi meraviglia, infatti, la facilità con cui la donna si scaglia
contro il barbone, di contro alla grossa difficoltà che incontra nel
reagire anche in maniera minima ai commenti degli altri uomini4.
Ciò mostra non solo un atteggiamento
profondamente diverso nei confronti di chi risulti “integrato”
nella società rispetto a quello adottato nei confronti di chi non lo
è, ma anche un comportamento
completamente differente. Insomma, a conti fatti, sebbene tutti i
personaggi maschili menzionati siano alquanto sgradevoli nel loro
approccio alla donna, quest’ultima riesce a reagire
(vigliaccamente, a mio avviso) soltanto dinanzi al più derelitto!
Lungi dal volere criticare arbitrariamente usi e costumi di un Paese
‘altro’, il mio scopo è quello di rilevare come questo fatto
rispecchi un atteggiamento comune e diffuso anche nella nostra
società, nei confronti dei poveri che vivono per strada. E non c’è
da stupirsi se quello che dapprima costituisce solo un comune sentire
diventi poi un modo di fare che non desta dissenso. Non è raro,
infatti, apprendere dai quotidiani o dai notiziari di casi di
violenza totalmente gratuita nei confronti di senzatetto, a opera di
gente cosiddetta dabbene. Ove il movente, per altro, è spesso la
noia (se non la ‘solita’ prepotenza).
Il
mio intento non è certamente quello di stigmatizzare un lavoro
cinematografico, il cui senso è chiaramente da ricercare in altro
piuttosto che in questo breve episodio; tuttavia, mi sento
interpellata in prima persona a prendere la parola rispetto ad un
episodio che ritengo grave, e soprattutto pericoloso se lasciato
passare senza riflessione di sorta. Il mio breve elaborato vuole
essere un incentivo rispetto a una presa di coscienza (e di
posizione) circa un fatto così importante5.
Ora, una critica è produttiva e utile allorquando si mostra capace
di far seguire, alla pars
destruens,
una proposta concreta ed efficace, e la mia riflessione non vuole
affatto esaurirsi unicamente in una critica infruttuosa. Allora, in
ciò consiste la mia proposta: l’emarginazione dei senzatetto è un
fatto noto, e la violenza su di essi ne è una conseguenza; a mio
avviso, non vi sono proposte o tentativi di soluzione migliori della
conoscenza personale, diretta o indiretta che sia, di una tale
realtà. Non mi riferisco solo alla presa in considerazione della
problematica in questione, ma anche - e soprattutto - delle persone
direttamente coinvolte. L’atteggiamento adeguato ad un confronto
con i senzatetto non è quello della pietà; questo, infatti, oltre a
essere solo di poco migliore rispetto all’estraneità e
all’indifferenza, genera un modello di relazione assolutamente
verticale, in cui un individuo che assume una posizione di
superiorità si pone gerarchicamente nei riguardi di un altro che si
trova – rispetto a lui - più in basso. Ora, è chiaro che non può
mai darsi una totale parità tra un individuo integrato nella società
e uno che ne vive ai margini: non è certo possibile avere chiara
cognizione delle reali condizioni di vita (e di disagio) proprie di
un clochards.
Purtuttavia, ci si può sempre cimentare in un tentativo ‘creativo’
di approccio: una modalità relazionale di tipo empatico, aperto al
confronto6,
capace di lavorare sui propri preconcetti (sempre utili per dare
inizio ad un processo di comprensione, ma da mettere in gioco sempre
di nuovo), al fine di modificarne le derive più estreme, nell’ottica
di un avvicinamento simpatetico7
al ‘diverso’, all’altro da noi8.
Sono proprio l’ignoranza, l’assenza di un confronto vero e
proprio che permetta di misurarsi con chi è apparentemente tanto
diverso e lontano da noi, a non consentire l’autenticità dei
rapporti e delle prese di posizione9.
La realtà dei senzatetto, quando non è ignorata o passata sotto
silenzio, è sempre oggetto di critica in senso negativo. Si tende a
biasimare una ‘scelta’ del genere – per quanto non sempre si
possa parlare di deliberazione autonoma: nella maggior parte dei
casi, quella di vivere per strada non è una decisione presa in
maniera libera e volontaria; piuttosto, si tratta di scelte obbligate
(ove l’eco dell’ossimoro è affatto palese). Non solo, dunque,
chi vive in condizioni disagiate diviene bersaglio di giudizi
negativi e di riprovazione; non solo costui è costretto alla
solitudine, all’emarginazione e al degrado psicofisico, ma è anche
oggetto di violenza (fisica e psichica, giustappunto). Il mio
obiettivo era proprio questo: segnalare la presenza di un problema,
prendendo spunto da una proiezione cinematografica ricca di spunti di
riflessione, sia in termini negativi (come nel caso dello stereotipo
riguardante i mendicanti finora analizzato), sia in termini positivi.
Infatti, per quanto io abbia stabilito come punto di partenza proprio
una parte di questo film, il mio intento – come già accennavo, e
mi accingo ora a ribadire - non è affatto quello di biasimare
l’intero film: tutt’altro. Se ci si avvale dell’etimologia del
termine “problema”, infatti, si è messi di fronte alla
consapevolezza della possibilità – mai totalmente negataci – di
risolvere il problema stesso a partire da esso10.
Se non avessi avuto questa sollecitazione dalla sequenza filmica in
questione, non mi sarebbe venuto in mente di sollevare la questione
(almeno, non in questa sede). Invece, proprio tale episodio mi ha
dato modo di porre in luce un aspetto rilevante della società. E
prendere coscienza di una cosa, per quanto problematica essa possa
essere, è comunque un buon inizio per tentare di superarla in un
senso positivo e produttivo.
1
Tale modo di procedere trae spunto dalla fruttuosa proposta del
Prof. A. Cozzo, il quale, proprio nell’ambito degli incontri
previsti in sede di laboratorio, ha aperto provocatoriamente il
proprio intervento dichiarandosi contrario ai diritti dell’uomo, e
in particolare all’espressione “Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo”. La giustificazione addotta riguardava
sostanzialmente due punti di rilevanza pregnante, sui quali non ci
si sarebbe affatto soffermati se non vi fosse stata l’azione
provocatoria, sovversiva (ma in senso profondamente positivo) del
docente. Anzitutto, egli menzionava la presenza di più di una Carta
dei Diritti – il che inficia senz’altro il carattere
‘universale’ di tal sorta di documenti (o quantomeno la loro
pretesa di validità universale). Ciò mostra, inoltre, le derive
coercitive di un’universalità pressoché (infondatamente)
imposta. In secondo luogo, criticava l’assenza, in seno alla
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, di
un qualunque riferimento ai doveri dell’uomo –
riferimento peraltro presente nella Carta Africana dei Diritti
dell’Uomo e dei Popoli del 1981. Menzionare unicamente i
diritti potrebbe, in effetti, comportare lo scadere in un buonismo
ipocrita, o in un assistenzialismo paternalistico e gerarchizzante
rispetto a tutelanti e tutelati, se non in un atteggiamento
certamente politically correct, ma gravemente
deresponsabilizzante. Se ho optato per un lavoro ‘decostruttivo’,
dunque, ciò è in parte dovuto alla lezione tratta dall’intervento
del Prof. Cozzo.
2
La proiezione di tale film, realizzato nel 2007 dalla regista
iraniana Marjane Satrapi, era prevista dal programma di svolgimento
degli incontri inerenti al laboratorio.
3
Poiché una donna divorziata è già ‘stata di’ un uomo, ella
non può aspirare ad una vita ‘normale’ o ad un ritorno alla
vita ‘prematrimoniale’ dopo avere divorziato: nessun altro uomo
vorrebbe sposarla, proprio perché lo è già stata con qualcun
altro, mentre vari uomini si sentono in diritto di farle delle
avances, considerandola necessariamente disponibile perché
consapevole del proprio status.
4
Naturalmente, qui non si tratta di invocare una sorta di ‘parità
di trattamento’ nel senso dell’opportunità di una reazione
egualmente violenta ed aggressiva nei confronti di tutti; piuttosto,
si tratta di riflettere sulla mancata ‘parità di
trattamento’. Pare infatti opportuno chiedersi perché il modo di
reagire della donna non sia il medesimo per ciascun singolo caso, e
soprattutto perché la reazione cambi esclusivamente ed
espressamente in un caso ben preciso – quello di un senzatetto.
Ciò che fa problema è l’atteggiamento discriminatorio. A fini
chiarificatori, riporterò un esempio, considerato anche che questo
episodio di discriminazione ricorda la testimonianza che una ragazza
nordafricana condivise con noi frequentanti il laboratorio durante
uno degli incontri. La sua esperienza riguardava la realtà degli
‘immigrati’, degli ‘stranieri’, ai quali non è affatto
riservato lo stesso trattamento che si usa riservare ai cittadini
‘regolari’. La testimonianza, infatti, mostrava come, mentre un
‘normale’ cittadino non venga sottoposto a controlli da parte
delle forze dell’ordine, a meno che questo non sia strettamente
necessario, un ‘immigrato’ possa essere fermato per un controllo
dei documenti in qualunque circostanza, perfino durante una semplice
passeggiata, per il solo fatto di essere ‘straniero’. Per tale
ragione, il cittadino ‘regolare’ può anche dimenticare di
portare con sé il proprio documento di riconoscimento, non
rischiando controlli improvvisi; diversamente, l’‘immigrato’
non può permettersi una tale svista (per quanto abbia il pieno
diritto di trovarsi nel luogo in cui si trova), pena le ben note
complicazioni di tipo burocratico sugli accertamenti di regolarità
di soggiorno. Anche questo episodio, dunque, a ben guardare, offre
svariati spunti di riflessione, e per questo motivo mi è parso
opportuno – nonché pertinente – riportarlo in questa sede.
5
Uno dei punti cardine della teoria-pratica della nonviolenza è la
critica della relazione vittima-carnefice e del giustificazionismo
che può seguirne. Infatti, così come il carnefice è tale solo e
soltanto in virtù della legittimazione che la vittima stessa,
comportandosi appunto da vittima, gli concede, allo stesso modo il
disinteresse e la superficialità (quali possono essere la mancata
presa di posizione, l’assenza di proteste, la mancata applicazione
di sanzioni) nei confronti di simili problematiche ne legittima il
sussistere ed il perpetuarsi.
6
Una modalità relazionale di questo tipo consente di instaurare un
rapporto simmetrico piuttosto che gerarchico, sebbene non si possa
dare un rapporto paritario per il motivo suddetto: risulta
impossibile capire realmente come viva un senzatetto, data la
complessità e la difficoltà di condurre una vita di stenti e di
emarginazione.
7
Il termine “simpatetico” deriva dal verbo greco á
(ove è chiara la presenza del riferimento a á,
-), che significa sia
“subisco, sperimento nello stesso modo”, sia “soffro insieme”
(il cum patior latino). Proprio il “soffrire insieme” nel
senso di un cercare di comprendere lo stato dell’altro, senza la
pretesa di capirlo in toto (il che è impossibile, a meno che
non ci si trovi a condividere realmente le sue condizioni di vita),
è un valido tentativo di apertura vera all’altro.
8
Misurarsi con una realtà sconosciuta o poco nota e mettere a
disposizione anche di altri il frutto della propria esperienza,
diffondendo in tal modo l’informazione guadagnata, costituisce una
buona prospettiva di risoluzione per questa sfera altamente
problematica del nostro contesto sociale. Sebbene un tale approccio
non possa affatto sanare la piaga dei senzatetto (in quanto inadatto
ad offrire a tutti i clochards condizioni di vita
effettivamente migliori: una stanza, un impiego, cibo e indumenti o
quant’altro), esso può però rendere migliori le condizioni
relazionali di questa gente, restituendole quella dignità che
spesso – e senza alcun titolo per farlo – le viene negata.
9
Può risultare proficuo, in questo contesto, leggere le parole con
cui, nel 1927, Martin Heidegger, eminente filosofo del secolo
scorso, prende in esame l’uomo (l’Esserci) dal punto di vista
della sua interpretazione: «l’Esserci [Dasein], fin
dall’antichità, da quando prese in esame se stesso, si interpretò
come Cura» (M. Heidegger, Essere e Tempo, tr. it. a cura di
F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2008, p.
224). L’Autore, insomma, pone a tema l’uomo nei termini di un
prendersi cura e di un aver cura che attestano la
possibilità - inscritta nell’essenza stessa dell’uomo - di una
relazione autentica con sé, con gli altri e con le cose intese come
strumenti e non come meri oggetti (cfr. Ivi, infra).
10
Anche in questo caso, il riferimento all’etimo si rende infatti
imprescindibile e illuminante. Il termine “problema”, in greco
ó,
significa, oltre che “questione”, “quesito”, “problema”,
anche “sporgenza”, “riparo”, “difesa”, “appiglio”.
Avvalendoci dei significati che la lingua greca ci fornisce possiamo
dunque vedere come un problema non sia unicamente una situazione
sfavorevole, bensì anche quello stesso che offre la possibilità -
l’appiglio, appunto - per la propria stessa risoluzione.
Ricerca
a cura di Giuseppa Aglieri, H.R.Y.O. – Human Rights Youth
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