Da
più di un mese le pagine dei giornali, in particolar modo dei
quotidiani locali, hanno dedicato ampio spazio ad un problema forse
da troppo tempo ignorato: l’occupazione abusiva di case popolari.
Secondo i dati dell’Iacp sono circa 4000 le case occupate
illecitamente a Palermo, a fronte di circa 16000 richieste di
alloggio (600 sono casi di emergenza), sebbene dei nuclei familiari
in attesa solo la metà sia in possesso dei requisiti necessari; in
base alla media fornita dagli uffici comunali sono circa 70 le case
assegnate ogni anno; dovrebbero inoltre essere messe a disposizione
circa 100 case tra il centro e la periferia e altri 100 alloggi sono
in costruzione a Borgo Nuovo.
Intanto,
però, nel quartiere dello Zen, circa da metà aprile, si è creata
una situazione di tensione che è forse l’inevitabile esito di
problematiche sviluppatesi nel corso di anni e ora esplose in modo
eclatante.
Ho
scritto “inevitabile”, ma non credo che il corso degli eventi sia
nelle mani di un Fato imperscrutabile e capriccioso dinanzi al quale
ci troviamo inermi: probabilmente si poteva in qualche modo evitare
che la situazione degenerasse fino a questo punto; ora è senz’altro
necessario prenderne atto senza sottovalutare un problema che va al
di là della difficoltà contingente, interessando più zone e da
lungo tempo.
Nel
caso specifico del quartiere palermitano dello Zen, la situazione è
precipitata quando il 20 aprile vigili urbani, protezione civile,
ambulanze, camion per traslochi e forze dell’ordine in tenuta
antisommossa sono intervenuti per sgomberare gli alloggi dell’
insula 3 (un isolato destinato alla realizzazione di un asilo nido,
un giardino, un poliambulatorio e una caserma dei carabinieri)
occupati illecitamente: in tutto una sessantina i nuclei familiari di
abusivi, di cui 50 stabilitisi in appartamenti ancora incompiuti
(cosa che ha portato all’interruzione dei lavori); dieci famiglie
si trovavano invece lì da più di un anno e, secondo quanto detto da
alcuni occupanti, «se con era per loro [i nuovi 50 abusivi] da qui
non ci mandava via nessuno, tutta colpa loro che hanno fatto casino
occupando le case ancora in costruzione. Ma perché non aspettavano
la fine dei lavori e ci entravano dopo, come noi?» ( 21 aprile
2010).
Quello
del 20 aprile non è certo il primo sgombero: ad alcune famiglie era
già capitato di dover lasciare un appartamento perché rivendicato
dal legittimo proprietario o di essere sgomberate dalla polizia per
poi tornare ad occupare abusivamente l’alloggio lasciato
disabitato. Stavolta però il problema ha assunto una dimensione
senza dubbio maggiore, probabilmente a causa dell’entità dello
sgombero, della ricerca di un provvedimento che sia definitivo e del
rilievo mediatico dato alla vicenda.
Soprattutto
i primi giorni sono stati carichi di tensione tra le forze
dell’ordine e gli abusivi, giorni segnati da scontri, lanci di
uova, resistenze decise…e da contrasti anche tra gli abusivi e i
legittimi assegnatari: tra questi ultimi vi è stato chi, proprio a
causa della forte conflittualità venutasi a creare nel quartiere, ha
preferito rinunciare all’alloggio temendo per la propria sicurezza.
Nel giro di qualche giorno, però, la tensione si è un po’
smorzata, lasciando così intravedere, dietro il caso di illegalità
e abusi, il caso umano: persone che rivendicano i propri diritti, in
particolar modo il diritto ad un’abitazione e ad un’assistenza
che non si manifesti solo in casi eccezionali come quello presente
(Rita Borsellino ha parlato di “«palese violazione del diritto
dell’individuo all’assistenza sociale e all’assistenza
abitativa riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione» e la negazione «della sicurezza sociale e delle cure
necessarie» ai bambini delle famiglie sgomberate previste dalla
Convenzione Onu dei diritti del fanciullo”) (28 aprile 2010).
D’altra parte queste persone sono ricorse a mezzi in ogni caso
illeciti sui quali le istituzioni non possono chiudere un occhio,
soprattutto in presenza di necessità di persone altrettanto
bisognose cui far fronte. Alcune famiglie di abusivi si sono quindi
allontanate pacificamente e l’associazione “Ragazzi di strada”,
che ha anche organizzato una veglia come forma di protesta
nonviolenta, ha appeso un lenzuolo con il messaggio: “nessuna
violenza, vogliamo solo un tetto”. Altre famiglie, pur tornando ad
occupare gli alloggi a metà maggio e dichiarandosi decise a non
lasciarli pacificamente se non fosse loro proposta un’alternativa,
hanno comunque voluto precisare che «non è un’occupazione vera e
propria, è solo a scopo dimostrativo. Vogliamo che le istituzioni
capiscano che non possono abbandonarci così», come ha sostenuto
Vincenzo Di Blasi, uno degli occupanti, seguito da Enza Caldovino:
«non bloccheremo i lavori e garantiamo che nessun danno verrà
arrecato alle attrezzature del cantiere edile» (16 maggio 2010).
Così,
tra tende di fortuna e presidi delle forze dell’ordine, c’è
stato spazio anche per forme di solidarietà: solidarietà nei
confronti degli abusivi da parte delle associazioni, delle forze
dell’ordine che hanno realizzato collette e da parte degli stessi
legittimi assegnatari.
Di
fatto sono proprio questi ultimi, che spesso aspettano una casa anche
per molti anni, coloro che possono comprendere meglio i bisogni degli
abusivi, sebbene la comprensione e la carità non debbano certo
sfociare in forme di pietismo e nella giustificazione di un atto che
resta comunque illegale. Massimo Castiglia, presidente della
associazione Handala, impegnata in attività di animazione di
quartiere, ha dichiarato al Giornale di Sicilia: «Non condividiamo
le occupazioni, ma siamo vicini allo stato di bisogno di queste
famiglie. Finché l’amministrazione comunale non si prenderà la
responsabilità di questa emergenza non occuperemo una sede ottenuta
al costo di uno sfratto» (29 aprile 2010).
Resta
difficile trovare un ricovero agli abusivi sgomberati: il sindaco
Cammarata alla fine di aprile aveva offerto a mamme e bambini la
possibilità di essere ospitati in case famiglia, non volendo
concedere “una corsia preferenziale «a chi rivendica un diritto
attraverso un abuso»”; l’assessore all’urbanistica Mario
Milone ha affermato che «servono soluzioni strutturali, cioè la
realizzazione di case popolari[…]ma l’attuale strumento
urbanistico non prevede aree destinate a edilizia residenziale
pubblica» (24 aprile 2010) ed ha offerto un ricovero temporaneo nei
locali della vecchia sede dell’Urbanistica in piazza della Pace,
che in seguito agli accertamenti richiesti sono però risultati
inagibili. Si discute inoltre dello sfruttamento dei beni confiscati,
il cui elevato valore strutturale ed economico ne rende però
discutibile l’uso in funzione di case popolari.
Probabilmente
la soluzione del problema avrebbe dovuto essere valutata prima
di effettuare gli sgomberi. È infatti innegabile che da un punto di
vista giuridico-amministrativo il diritto di usufruire di questi
alloggi popolari spetti a determinate persone, e per questo è
assolutamente necessaria la presenza e la scrupolosa organizzazione
di enti che si occupino con sollecitudine della valutazione dei
criteri di assegnazione delle case popolari, che prevengano il
verificarsi di occupazioni abusive e che effettuino regolarmente
controlli al fine di evitare atti illeciti quali la compra-vendita di
tali alloggi; ma in casi come questo, in cui per rispetto alla
legalità sia necessario ricorrere a sgomberi è fondamentale
ricordare che da un punto di vista umano godiamo tutti degli stessi
diritti e pertanto sarebbe stato necessario provvedere ad un
ricovero, anche provvisorio, prima di intervenire. Considerata
l’entità del fenomeno e l’innegabile presenza di condizioni di
forte disagio, la situazione è da considerarsi di emergenza; così è
stata percepita anche dagli sfollati che con queste parole si sono
rivolti al Governo centrale: «Non basta intervenire solo in casi di
calamità naturale. Anche l’emergenza case di Palermo è una
calamità» (27 maggio 2010). Si rendono pertanto necessarie misure
straordinarie che non possono limitarsi a un susseguirsi di blitz e
presidi, soluzioni di fatto a breve termine. Lo stesso prefetto
Marangoni ha dichiarato: «purtroppo quello dello Zen è un problema
di ordine amministrativo che si è incancrenito, trasformandosi in un
problema di polizia.[…]La soluzione non può essere certo una
risposta di polizia.[…]quel che è certo è che il nostro
intervento, così come il nostro presidio, non può essere a tempo
indeterminato.[…]naturalmente le forze dell’ordine non possono
che appoggiare tutte le azioni di ripristino della legalità laddove
si dovessero riproporre situazioni analoghe a quella dello Zen. Ma è
una questione molto più ampia, che va risolta tenendo conto delle
risorse a disposizione» (15 maggio 2010).
Una
soluzione a breve termine per questa che, ripeto, è una situazione
di emergenza pubblica, cittadina, finalizzata a
sopperire alle più elementari esigenze degli sfollati, potrebbe
essere costituita dall’intervento della Protezione Civile per
allestire una tendopoli attrezzata. In questo modo sarebbero
garantiti ricoveri più validi, forniti di adeguati servizi e in
grado di preservare l’unione dei nuclei familiari.
Tale
soluzione, ai requisiti già accennati, unirebbe naturalmente quello
della temporaneità.
Per
una soluzione a lungo termine, è invece necessaria, come ho già
scritto, innanzitutto un’efficiente organizzazione degli enti
preposti all’assegnazione degli alloggi popolari già esistenti; in
secondo luogo la seria formulazione di un piano per il reperimento
dei fondi e la costruzione degli alloggi mancanti.
Questi
provvedimenti devono esser considerati come i primi passi nella
situazione specifica, ma secondo una prospettiva di carattere più
generale dovrebbero essere il prodotto di un processo che parte da
più lontano, dalla formazione etico-professionale della classe
dirigente. È altresì importante la formazione, soprattutto
scolastica, dei bambini e dei giovani, perché siano educati alla
legalità e al rispetto dei diritti di ciascuno.
Purtroppo
quanto successo allo Zen è la dimostrazione che certe realtà
interpellano le coscienze e suscitano attenzione solo quando
raggiungono un’acme di gravità che sarebbe prudente evitare: ciò
dovrebbe servire da monito per il futuro. Per questo è fondamentale
non “dimenticarsi” del problema: questo caso particolare e il
rilievo, il giusto rilievo, che gli è stato attribuito ha fatto sì
che si conosca meglio una problematica che interessa e coinvolge
tantissimi concittadini. Ed è questo l’appello delle famiglie
sfollate: «Non vogliamo creare disordini, non vogliamo metterci
contro nessuno. Speriamo solo di non essere dimenticati come è
accaduto fino adesso.» (15 maggio 2010). E come bisogna ricordarsi
degli abusivi sfollati, bisogna pure ricordarsi di tutti coloro che,
regolarmente iscritti nelle liste, attendono a lungo, troppo a lungo,
l’assegnazione di una casa.
Inoltre
gli atti di solidarietà che ho sopra ricordato hanno dimostrato come
un passo fondamentale per ridurre la tensione e le ostilità sia
stato compiuto da chi è più direttamente coinvolto e credo che la
premessa fondamentale per la soluzione nonviolenta di un conflitto
sia proprio non vedere l’“avversario” come un antagonista da
mettere a tacere perché in torto, ma piuttosto come una persona
mossa da esigenze e sentimenti analoghi ai nostri, con cui è
necessario e doveroso confrontarsi per giungere ad un accordo che sia
una riconciliazione, una soluzione in vista di ciò
che è meglio per tutti piuttosto che la vittoria di una delle
due parti in conflitto.
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Le
interviste da “La Repubblica” e “Giornale di Sicilia”
Ricerca
a cura di Costanza Sciarabba, H.R.Y.O. – Human Rights Youth
Organization
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